XI

LA RIPRESA SENTIMENTALE-ESPRESSIVA DEL ’27

Ed è proprio dal seno della meditazione dello Zibaldone che, soprattutto nel ’27, lentamente la sensibilità e le forze piú intere della personalità leopardiana riprendono maggiore accordo e ricambio quanto piú i pensieri si spostano sul modo della propria esperienza personale e delle persone concrete e dei loro affetti scomparsi o presenti, mentre una nuova volontà creativa si manifesta partendo dal solido terreno della prosa, esercitata, con varie forze, ma ininterrottamente dalle Operette in poi, ben predominante sulla piú rara versificazione della nuova versione della Batracomiomachia e di quella dell’epistola petrarchesca al Colonna o dell’Epistola al Pepoli, e studiata e antologizzata nella Crestomazia italiana della prosa incentrata nella significativa presenza di Galileo, nonché appoggiata (al di là delle richieste editoriali dello Stella) sia ad un mai interamente spento impegno civile-patriottico («andando dietro ai versi e alle frivolezze... noi facciamo espresso servizio ai nostri tiranni, perché riduciamo a un gioco e a un passatempo la letteratura dalla quale sola potrebbe aver sodo principio la rigenerazione della nostra patria»[1]) sia al disprezzo già ricordato per ogni poetico esercizio, dell’«eloquente» e dell’«affettuoso».

Mentre una nuova volontà creativa e una capacità di riannodare pensiero, sentimento, fantasia, si manifestano nella composizione delle due nuove operette: il Copernico, con l’alacrità inventiva delle varie «scene» e dei vari personaggi da commedia mitica con i loro monologhi e dialoghi (al centro una nuova «pericolosa» aggressione ideologica alle vecchie e nuove credenze ottimistiche-provvidenzialistiche e la certezza che il sistema copernicano non era un fatto solo scientifico, ma «sconvolgerà» «i grandi della dignità delle cose, e l’ordine degli enti... farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica... E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui o che si hanno immaginato di essere»[2]) e il tanto piú alto e importante Dialogo di Plotino e di Porfirio, su cui ritorneremo. E nello Zibaldone del ’27 i pensieri intitolati Memorie della mia vita, l’avvio dei pensieri sulla lirica e sul valore della ricordanza e del «vago» che avranno poi pieno svolgimento nel ’28-29, si intersecano con pensieri che puntano sul rapporto con gli altri sia in maniera piú relativamente «egoistica» («È ben trista quella età nella quale l’uomo sente di non ispirar piú nulla. Il gran desiderio dell’uomo, il gran mobile de’ suoi atti, delle sue parole, de’ suoi sguardi, de’ suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio di inspirare, di communicar qualche cosa di sé agli spettatori o uditori»[3]), sia in maniera piú disinteressata e pur necessaria alla vita, che è sempre, al fondo, vita degli «altri» a noi e di noi agli «altri». Proprio su questi ultimi grandi temi si incontrano un eccezionale pensiero zibaldonesco del 9 aprile 1827 e il finale del citato Dialogo di Plotino e di Porfirio, disserrando le maggiori chiusure del periodo ’25-26 e aprendo la via alla tematica e alla sensibilità che confluiscono nella poetica e nella poesia del ’28-30 e che a quella poesia danno una intima tensione, tanto superiore a quella di una poesia idillica anche nel senso piú criticamente scaltrito di questa parola e del suo uso migliore nella critica leopardiana[4].

Il pensiero del 9 aprile 1827 sui morti e sul presunto consenso comune «a favore dell’immortalità dell’animo», non solo demolisce tale consenso con un procedimento analitico e logico di impareggiabile lucidità, ma nell’attrito sentimentale con quel grande tema fa sgorgare una sensibilissima diagnosi del nostro atteggiamento di fronte alle persone scomparse per sempre, del nostro pianto per loro non come «morti», ma come «stati vivi» e cosí muove il tema sentimentale-poetico del loro ricordo e del tentativo del loro recupero attraverso la memoria di ciò che fu piú inconfondibilmente e irripetibilmente loro (quelle mani, quel volto, per dirla con Montale, o le loro phrases familières per dirla con Valéry):

Allegano in favore della immortalità dell’animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto piú di ragione, quanto che il sentimento ch’io sono per dire è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni: o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un’opinione. Se l’uomo è immortale, perché i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l’egoismo che in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuni ricevono grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto. Noi c’inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e malgrado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Cosí gli antichi, presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l’offendere la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl’infelici non s’ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: cosí i moderni; cosí tutti gli uomini: cosí sempre fu e sempre sarà. Ma perché aver compassione ai morti, perché stimarli infelici, se gli uomini sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l’odierebbe, perché lo stimerebbe reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore e di avversione: e ciascuno sa per esperienza che il dolor che si prova per i morti non è né misto di orrore o avversione, né proveniente da tal causa, né di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita e l’essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto, non sia piú.

Ma se crediamo questo, perché lo piangiamo? Che compassione può cadere sopra uno che non è piú? – Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perché ha cessato di vivere, perché ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell’essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto. Quanto al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui.

In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro: troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è piú, io non lo vedrò piú. E qui ricorriamo con la mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi: e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate: non saranno mai piú: ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e c’intenerisce. Dal qual sentimento proviene quel ch’io ho notato altrove: che il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è l’ultima volta: ciò non avrà luogo mai piú: io non lo vedrò piú mai: o vero: questo è passato per sempre. Di modo che nel dolore che si prova per morti, il pensiero dominante e principale è, insieme colla rimembranza, e su di essa fondato, il pensiero della caducità umana. Pensiero veramente non troppo simile né analogo né concorde a quello della nostra immortalità. Alla quale noi siamo cosí alieni dal pensar punto in cotali occasioni, che se noi dicessimo allora a noi stessi: io rivedrò però questo tale dopo la mia morte: io non sono sicuro che tutto sia finito tra noi, e di non rivederlo mai piú: e se noi non potessimo nel nostro pianto, usare e tener fermo quel mai piú; noi non piangeremmo mai per morti. Ma venga pure innanzi chi che si voglia e mi dica sinceramente se gli è mai, pur una sola volta, accaduto di sentirsi consolare da siffatto pensiero e dall’aspettativa di rivedere una volta il suo caro defunto: che pur ragionevolmente, poste le opinioni che abbiamo della immortalità dell’uomo, e dello stato suo dopo morte, sarebbe il primo pensiero che in tali casi ci si dovrebbe offrire alla mente. Ma in fatti, come dal fin qui detto apparisce, quali si sieno le nostre opinioni, la natura e il sentimento in simili occasioni ci portano senza nostro consenso a giudicare e tenere per dato, che il morto sia spento e passato del tutto e per sempre.

Concludo, che per quanto permette la infinita diversità ed assurdità dei giudizi, dei pregiudizi, delle opinioni, delle congetture, dei dogmi, dei sogni degli uomini intorno alla morte: noi possiamo trovare, massime se interroghiamo la pura e semplice natura, che essi in sostanza, e nel fondo del loro cuore, piuttosto consentono in credere la estinzione totale dell’uomo, che la immortalità dell’animo: senza che, nella detta diversità ed assurdità, io pretenda che tal consentimento sia di gran peso[5].

Tutto in questo pensiero è sottolineabile sia nella sua straordinaria intensità sia nei rapporti con la poesia di Silvia e di Nerina, cosí come il finale del Dialogo di Plotino e di Porfirio – già cosí significativo nel nuovo rapporto di pari dignità e nobiltà spirituale e sensibile delle due voci alte e malinconiche (prova di un vero colloquio, di un «tu» affettuoso cosí diverso dal dialogo a diverso livello, e spesso a contrasto di nobiltà e di stoltezza, delle voci delle precedenti operette) – porta in forte, nuova luce – al di sopra del corso intero dell’operetta cosí importante nella stessa dimostrazione antiplatonica della ragionevolezza del suicidio e nell’attacco a Platone e ad ogni spiritualismo per la crudeltà del dubbio insinuato nell’uomo circa l’immortalità (il grande dubbio operante in Amleto) – il «senso dell’animo» e il sentimento degli «altri» di fronte a cui misuriamo diversamente l’atrocità del suicidio per il dolore che ai cari «altri» con esso produrremmo.

Sicché l’invito finale di Plotino all’amico tentato di uccidersi, mentre sembra rompere le chiusure della morale dell’astensione e della pazienza individualistica (sebbene in forme tuttora rassegnate, temperate e dolcissime, non scambiabili con quelle della morale eroica piú energica della Ginestra e del suo messaggio a «tutti», ma certo anche lontane da una semplice pietà «molle» di tipo pascoliano), si apre alle sollecitazioni sentimentali-poetiche dei canti pisano-recanatesi, dove il «tu» acquista una forza cosí intensa, dove gli «altri» e specie gli scomparsi per sempre campeggiano come polo di attrazione della ricordanza e del recupero del tempo passato e come centro del fascino malinconico della vita, fatta di rapporti con gli altri entro noi stessi e nella storia, o come concreta verifica delle verità che riguardano la comune sorte degli uomini.

Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosí, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sí bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora noi ci dorremo: e anche in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora[6].

Non tutta la poesia del ’28-30 si spiega solo alla luce di queste grandi parole e di quelle del pensiero sui morti, ma certo essa, stimolata da una generale ripresa vitale e da un folto intreccio di ragioni interne, trova in quella prospettiva del «senso degli altri», del «senso dell’animo», del recupero degli scomparsi per sempre, una delle sue ragioni piú interne e profonde, che la critica ha trascurato o non pienamente valorizzato quanto piú ha puntato sul semplice e sia pur «grande» idillio o nelle forme piú realistiche del perfetto quadretto «alla fiamminga» o in quelle dei «miti» supremi del «pittore dell’anima sua» e della sua ricordanza. Non è certo da smentire quella perfezione variamente attuata (e comunque non ultimo culmine di una poesia ancora cosí ricca di nuove e altissime risorse), ma è da giustificare e capire, mi pare, piú dall’interno delle sue intere ragioni e delle sue profonde prospettive.

Alle quali, mentre (come mostreremo parlando del Canto notturno) si collegano i grandi pensieri metafisici specie del ’29, che ben dimostrano quale trama profonda anche di pensiero sorregga i cosiddetti grandi idilli, dovrà esser aggiunta (coll’evidenza di nessi profondi fra temi esistenziali-filosofici e temi di poetica piú esplicitamente letteraria) la prospettiva del Leopardi quanto al valore poetico della «lirica», della «doppia vista» del poeta, della rimembranza, della natura antimimetica della poesia, del valore dello stile, intorno a cui lo Zibaldone porta una messe cospicua di pensieri, aperti già alla fine del ’26 e seguitati a sgorgare nel ’27 e poi ancora durante il periodo di elaborazione dei canti nel ’28 e ’29. Al centro è l’istanza di una poetica che punta sulla estrema autenticità della poesia, sul suo profondo dovere di esprimere esperienze realmente vissute e sofferte dal poeta, e non perciò sdegnosamente solitarie, ché al fondo dell’intimo si può pur recuperare l’universalmente umano.

Cosí – almeno in una presentazione indicativa di alcuni dei molti pensieri adducibili a un discorso che dovrebbe essere tanto piú ampio e articolato – sul tema della lirica si dovrà puntare sui pensieri che partono da quello del 15 dicembre 1826 (che afferma il primato del genere lirico su tutti gli altri generi poetici come genere «il piú nobile e piú poetico di ogni altro: vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio d’ogni uomo anche incolto... espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo»[7]) e si diramano fino al pensiero del 29 agosto del ’28 (che contesta una vera natura poetica agli altri generi e afferma, sempre a favore della lirica, che «il fingere di avere una passione un carattere ch’ei non ha è cosa alienissima dal poeta; non meno che l’osservazione esatta e paziente dei caratteri e passioni altrui. Il sentimento che l’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta, il solo che egli prova inclinizione ad esprimere... L’imitazione tien sempre molto del servile. Falsissima idea considerare e definire la poesia per arte imitativa... Creatore, inventore, non imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta»[8]) o a quello del 30 marzo 1829 che ripresenta il genere lirico «siccome primo di tempo, cosí eterno ed universale, cioè dell’uomo perpetuamente in ogni tempo e in ogni luogo, come la poesia; e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il piú veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto sono liriche», vedendolo insieme come il piú primitivo e il piú moderno[9].

Mentre la spiegazione della poesia e della lirica come essenziale forma di poesia antiimitativa («il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che quando Natura parla ecc., vera definizione del poeta. Cosí il poeta non è imitatore se non di se stesso»[10]) si congiunge al già ricordato pensiero del 3 novembre del ’28 circa la Divina Commedia come «una lunga Lirica, dov’è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti», riducendo la tentazione a sostenere il pensiero sulla brevità dell’ispirazione e dell’entusiasmo[11] come autorizzazione leopardiana al semplice frammento poetico. Ché a ben altro pensava (e ben altro attuava) il Leopardi, al quale premeva sottolineare soprattutto il carattere intimo, autentico, profondamente personale (e cosí universale) della poesia e l’alimento del sentimento «presente», attualmente sentito, da parte di tutta la sua esperienza piú vissuta (e si ricordi ancora la definizione degli idilli «esprimenti affezioni, situazioni, avventure storiche del mio animo») e soprattutto – in questo periodo – dalla riserva delle rimembranze che assicurano insieme alla poesia il carattere di esperienza vissuta, la possibilità di recupero del passato e delle persone e affetti scomparsi, di rifiuto della cronaca imitativa del presente e della sua amarezza bruciante e il carattere del «vago» e della doppia vista del vero poeta. Perché «il poetico» consiste solo nel «lontano, nell’indefinito, nel vago»[12] e «quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza, che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente»[13]; e cosí, poiché con l’immaginazione un uomo sensibile e immaginoso percepisce come una seconda dimensione degli oggetti[14], la rimembranza sarà strumento essenziale di tale doppia vista, come si spiega nel pensiero già citato del 14 dicembre 1828: «Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico». Mentre poi, con ulteriore scavo, il Leopardi affermerà in un pensiero del 29 maggio 1829[15]: «Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente, o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perché ci chiamano le rimembranze piú remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e ordinarie. E i poeti che piú hanno di tali concetti (supremamente poetici) ci sono piú cari. Analizzate bene le vostre sensazioni ed immaginazioni piú poetiche, quelle che piú vi sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; troverete che esse, e il piacere che ne nasce (almeno dopo la fanciullezza), consistono totalmente o principalmente in rimembranza».

Né infine andrà dimenticata la rinnovata e ancor piú crescente preoccupazione dello stile e della sua «semplicità», come meta massima della poesia e come frutto di studio e di elaborazione: «Chi scrive senz’arte non è semplice»[16]. Cosí la poetica dei canti pisano-recanatesi si individua in una via complessa, sostenuta non meno da ragioni stilistico-poetiche che da ragioni filosofiche, sentimentali, profondamente autobiografiche, tutt’altro che intatte (come si vorrebbe in certe accezioni tutte puristiche della poesia) da condizioni di vita e di sviluppo della concreta e intera personalità leopardiana.


1 Lettera al Puccinotti del 5 giugno 1826 (Tutte le op. cit., I, p. 1255).

2 Si pensi a Monaldo che – a suo modo conscio di tanta pericolosità – desiderava un nuovo Copernico che rimettesse la terra al centro dell’universo!

3 Zibaldone, 1 luglio 1827 (Tutte le op. cit., II, p. 1147).

4 Circa la maggior ripresa di attenzione leopardiana alla «civilizzazione umana» nel ’27 si ricordi il pensiero del 13 aprile di quell’anno (Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 1145) che qui riporto e che fa come di lontano presentire certi elementi del messaggio (Lettera a un giovane del ventesimo secolo) della Ginestra. Su questo importantissimo pensiero si veda l’acuta nota di A. Diamantini, G. L. e un progetto di lettera a un giovane del ventesimo secolo, in «La Rassegna della letteratura italiana», 2/3, 1964. «Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finché vi sieno creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del ventesimo secolo».

5 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, pp. 1144-1145).

6 Tutte le op. cit., I, p. 179. Questa importante apertura del finale del dialogo verso la zona della ripresa sentimentale-poetica pisano-recanatese va però limitata nei confronti di un frettoloso diretto rapporto con l’impegno solidaristico della Ginestra che, mentre non erompe ingiustificato rispetto alla lunga meditazione leopardiana sull’uomo e sulla natura, richiedeva però ben altro sviluppo di esperienza, di meditazioni, di collaborazione fra pensiero e immaginazione in una diversa impostazione di tutta la personalità. È insomma errato anticipare i tempi del densissimo e tormentato svolgimento leopardiano, magari avvalendosi, sempre in questa zona, di un importante pensiero dello Zibaldone (16 novembre 1826, in Tutte le op. cit., II, pp. 1119-1120) che riferisce ed espande un’osservazione di Ierocle: «Bellissima è l’osservazione di Ierocle... che essendo la vita come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci sono dati come alleati e ausiliari ec.». Sí, l’obbiettivo unificante è la «nemica natura» e gli altri uomini non appaiono come i veri nemici nostri, ma ancora il germe solidaristico è debole e chiuso entro la cerchia di rapporti stretti e familiari.

7 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 1123).

8 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 1175).

9 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 1228).

10 Zibaldone, 10 settembre 1828 (Tutte le op. cit., II, p. 1180).

11 Cfr. Zibaldone, ibidem.

12 Zibaldone, 14 dicembre 1828 (Tutte le op. cit., II, p. 1199).

13 Zibaldone, 23 ottobre 1828 (Tutte le op. cit., II, p. 1195).

14 «All’uomo sensibile e immaginoso che viva come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono come doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono di una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbiettivi sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione» (Zibaldone, 30 novembre 1828, in Tutte le op. cit., II, p. 1196).

15 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 1234).

16 Cfr. Zibaldone, 23-31 luglio 1828 (Tutte le op. cit., II, p. 1164) e, circa la negligenza dei contemporanei nei confronti dello stile, cfr. Zibaldone (Tutte le op. cit., II, pp. 1140-1141).